2005年01月01日

Sculli, il nipote prediletto del boss «Vergogna? No, vado a testa alta»

«Mio nonno capo della 'ndrangheta? Per me non ha fatto nulla di male»

L'esercizio è doloroso, apre ferite mai rimarginate. Peppe Sculli, stella nascente del pallone, medaglia di bronzo all'Olimpiade di Atene e campione europeo con l'Under 21 di Gentile, titolare nel Brescia, cerca disperatamente un punto di ancoraggio nel calcio per guardarsi indietro. E' pur sempre il nipote prediletto di Giuseppe Morabito di Africo (Reggio Calabria), quel Tiradritto delle tante inchieste sui clan della Calabria, una vita turbolenta tra famiglia, carcere e latitanza, catturato dopo 12 anni di ricerche e blitz a vuoto il 18 febbraio scorso. Assieme a Morabito venne catturato anche il genero Giuseppe Pansera, 48 anni, medico e marito di una delle tre figlie, latitante anch'egli. Ha ragione chi dice che, parlando di calcio, non si allarga mai lo sguardo. Così abbiamo provato a farlo raccontando la storia di Sculli, quel ragazzino che emigrò a Torino all'età di tredici anni per diventare calciatore. E lui ha usato quella franchezza propria di chi ha la sensazione di poter confidare qualunque cosa e di poter essere sincero e spontaneo senza riserve. Partendo da quel 18 febbraio...
«Ricordo come fosse ieri il giorno in cui mio nonno venne arrestato. Tornavo dalla Grecia dove avevo giocato e segnato con l'Under 21. Stavo per raggiungere Verona e sul cellulare arrivò la chiamata da casa che mi annunziava che il nonno era stato catturato. Mi crollò il mondo addosso. In tutta onestà non sapevo se comunque era meglio che la sua latitanza fosse finita - così poteva curarsi perché da anni soffriva di prostata e inoltre non avrebbe più rischiato di morire in un conflitto a fuoco o in un agguato - o continuare a vivere braccato ma libero. D'altra parte, un uomo libero è pur sempre un uomo libero». Le cronache metropolitane raccontano di investigatori che, sulle tracce del Tiradritto e con la foto segnaletica in tasca, finivano negli stadi di mezz'Italia dove Peppe Sculli giocava, nella speranza di acchiappare la primula calabrese, tifosissimo del nipote al punto da lasciare i boschi dell'Aspromonte per assistere dal vivo alle sue prodezze.
«Non lo vedo da quando si diede alla latitanza. Era il 1992. L'anno dopo andai a Torino, ingaggiato dalla Juventus. Mio nonno era un tipo premuroso e i suoi consigli mi sono serviti nella vita. Mi diceva sempre di comportarmi bene e portare rispetto alle persone, soprattutto alle forze dell'ordine. Mi diceva di camminare sempre a testa alta perché non avevo nulla di cui vergognarmi. E anche oggi che lui si ritrova rinchiuso in una cella con l'accusa di essere un boss della 'ndrangheta, cammino a testa alta perché non ho nulla di cui vergognarmi».

Ma un boss può raccomandare il nipote?
«Ho 23 anni, sono nato a Bruzzano Zeffirio, a settanta chilometri da Reggio Calabria. Raccomandato? Semmai fortunato o privilegiato per il lavoro che faccio. Ma è tutto frutto di una grande forza d'animo e di tanti sacrifici. Fin da ragazzino sognavo di diventare un calciatore professionista. Ritengo un fiore all'occhiello l'aver vinto una medaglia olimpica. Di Torino ricordo una città dura e chiusa per un ragazzino. Studiavo e mi allenavo. Ho un diploma... è stata dura lasciare la Calabria, i miei amici, il calore del Sud».

E magari aver lasciato il nonno tifoso...
«Quando ero bambino giocavo nel Brancaleone. Ricordo che ogni sabato e domenica andavamo tutti a mangiare a casa sua. Era una consuetudine. Di lui mi ricordo il carisma. Quando mio nonno fu costretto a nascondersi, capii che per la famiglia erano momenti difficili. Soffrivo in silenzio. Avevo voglia di piangere e sfogarmi con qualcuno, ma ero obbligato a tenermi tutto dentro nel timore che qualcuno mi tradisse. Non immaginate quanto abbia sofferto per questa situazione: ero pur sempre un ragazzino. Mio nonno è una persona rispettata da tutti nel paese: un generoso che amava aiutare il prossimo e spesso cercava e otteneva lavoro per chi ne aveva bisogno. Nel silos di sua proprietà dava lavoro a tanti. Il suo affetto non si limitava ai familiari ma anche alla gente di Africo. Penso che mio nonno, durante la latitanza, non si sia mai mosso dalla Calabria: ovunque andasse avrebbe trovato una porta aperta per il bene che aveva fatto».
Peppe è un giovanotto di grande sensibilità. Ha quella comprensione profonda che permette di capire che cosa pensa o prova l'altro. Anche senza bisogno di parlarsi. E così svela perché non è mai voluto andare in carcere a far visita all'adorato nonno. «So che ci resterei male a vederlo dietro le sbarre e anche lui soffrirebbe vedendomi andare via dopo il colloquio. Mi tengo informato con mia nonna che spesso lo va a trovare. Mi ha raccontato che il nonno ha visto tutte le mie partite alle Olimpiadi facendo un tifo sfegatato per me. In cuor mio gli ho dedicato il bronzo di Atene. So che sono il suo nipote prediletto e non lo rinnegherò mai. Per me non ha mai fatto nulla di male».

Eppure lo accusano di essere il capo della 'ndrangheta...
«Sono cattiverie di gente invidiosa del suo carisma. In Calabria spesso ti buttano la croce addosso per invidia. Purtroppo, le cose vanno così. Lo accusano di essere un mafioso, ma io non ci crederò mai. Ha sempre trovato le porte aperte non perché fosse un boss, ma perché si è sempre comportato bene con tutti. Da ragazzino mi diceva sempre: "Peppe, se fai del bene, riceverai sempre del bene". Sono sicuro che le cose si chiariranno presto. D'altra parte si sa come funziona la giustizia in Calabria. Anni fa hanno ammazzato mio zio in un conflitto a fuoco mentre si trovava sull'auto dei carabinieri. A sparare sono stati dei poliziotti. Come è finita? Nessuno ha pagato per la sua morte. Ho visto in tv una puntata di Blu notte che parlava di mio nonno. E che cosa hanno detto di concreto? Nulla. Solo chiacchiere...».

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